Dove sfioriscono i ciliegi
racconto
La casa è vuota, Greta pure. Ogni cosa è così polverosa, così nera, così pesante. Si guarda intorno, le bambole di pezza sono appoggiate una sopra l’altra a pancia in giù, formano una pila disordinata e grigia, non hanno più la stessa vita che avevano una volta, quando Greta le posizionava sul suo tavolino, le accompagnava a prendere il tè, le vestiva per il ballo e pettinava ogni loro ricciolo, biondo o moro che fosse.
. Ci sono anche delle fotografie, c’è Greta e c’è anche Aisha, anche quelle fotografie sono polverose, lei era così piccola, entrambe lo erano, la polvere le invecchia, però i loro lineamenti erano così dolci e sottili, così tanto che Greta se non avesse coscienza di aver scattato quella foto nemmeno si riconoscerebbe. Nella foto sorrideva, ed era così bella.

Costellazione del Capricorno
Greta ha 14 anni e un volto così duro: si direbbe più vecchia, i suoi lineamenti non sembrano quelli di un’adolescente, la fronte è perennemente corrucciata, e gli occhi sono sempre tristi. L’unica cosa che rimane della sua infanzia sono le sue guance rosse, anche i capelli sono più scuri, i boccoli biondi hanno lasciato il posto a un castano mosso, ogni cosa in lei è cambiata. È anche troppo magra, perché una volta non mangiava così poco, aveva sempre un grand’ appetito, poi ha perso anche quello, ora Greta mangia come i vecchi dell’ospedale o, come le dice la zia, come un uccellino. Non lo fa apposta, Greta non ha fame, ha un perenne mal di stomaco, non ha nessuna ulcera, nessuna malattia, Greta semplicemente sta così, Greta semplicemente sta. Non sa nemmeno lei come ha fatto a diventare quella che è, sa solo che è sempre arrabbiata, spesso le viene da piangere e da urlare e spesso lo fa. Si arrabbia sempre con sua madre perché pensa che lei non soffra - o meglio che non soffra come lei - e non lo capisce…Aisha non c’è più e lei non riesce a capacitarsi di come il mondo riesca ad andare avanti comunque. Le persone si alzano al mattino, vanno al lavoro, pranzano, c’è chi continua con lo sport, chi viaggia, il sole si alza, per poi tramontare, e così via. Invece Greta è vuota, un po’ come quella casa. Greta ha perso ogni cosa, è sola. Greta è senza voglia, senza voglia di alzarsi, senza voglia di studiare, senza voglia di mangiare, di vedere le amiche, di stare con i genitori, senza voglia di viaggiare e senza voglia di diventare grande, circondata da tutto ciò che sente solo come superficiale, da libri inutili, da genitori che la portano in vacanza ma non piangono mai, da amiche che non la capiscono, e da ragazzi che la osservano solo perché sta crescendo, e il suo fisico sembra più carino di quello di una bambina, bella fuori e vuota dentro. Lei e i genitori si sono trasferiti da quando Aisha se n’è andata, l’appartamento era troppo piccolo per quattro, ed ora che sono in tre non capisce a cosa serva una casa a due piani. Quello che stava nella sua casa era tutto ciò che le rimaneva di Aisha, e lei non avrebbe voluto lasciarlo: il letto a castello dove dormivano insieme c’è ancora, e c’è anche il cuscino di Aisha, che lei stringeva forte le prime notti in cui lei non c’era più e su cui riversava sopra lacrime salate e dure, forse sono quelle che le hanno scavato il volto. I vestiti sotto il letto non ci sono più, Greta aveva accuratamente sistemato ogni piccolo vestito di Aisha, in grandi scatole nere, che apriva solo nel momento del bisogno, per sentire il suo profumo, e poi le richiudeva accuratamente per paura di disperderlo.
Ora la casa è da affittare, e pian piano si sta svuotando, rimangono solo i suoi ricordi, lì aveva fatto i primi passi, lì aveva parlato la prima volta, lì era arrivata da lontano, per starci poi 14 anni. Lì lei e Aisha giocavano alle tigri, a mamma e figlia, al cagnolino, a brutta monella, poi basta. Greta è rimasta sola, non c’è più nessuno che gioca con lei, non che a 14 anni abbia ancora voglia di giocare in realtà, ma lo farebbe comunque per Aisha, o forse ne avrebbe ancora solo bisogno. Sente di essere cresciuta troppo in fretta, un po’ forzatamente, e la solitudine in cui si trova è un po’ come uno di quei rampicanti, che inizialmente sono volutamente indirizzati con bastoni, quelli che vengono curati, tagliati e che sembrano abbellire le case, ma poi quando le case vengono abbandonate, le ricoprono, entrano dalle finestre e creano crepe nei muri. Ecco dicono che dalle crepe entri luce, ma nelle crepe di Greta, ci sono solo foglie selvatiche e ci vorrebbe troppo tempo, troppo impegno ed energie che lei non ha per estirparle.
Greta non capisce bene se il rimanere sola debba essere una costante implicita della sua vita, effettivamente lei è nata sola, tutti nascono con una mamma, ma Greta no, lei la mamma l’ha trovata dopo. È stata per un po’ in una casa famiglia , poi qualcuno l’ha trovata e da allora per lo meno è stata amata, lei non ricorda assolutamente nulla , però ha in sé questa consapevolezza, quando è nata era in preda alla solitudine, senza famiglia e senza amore. Ora che Aisha , la bambina che aveva in affido , o come lei la definiva, sua sorella, è scomparsa, Greta è al punto di partenza, senza una parte della sua famiglia e senza amore, perché non solo non ha più quello di Aisha, ma ha anche deciso che non lo darà mai più a nessuno: se la solitudine è una costante della sua vita tanto vale spenderci sentimenti nelle cose che fa, e così Greta ha ridotto il catalogo delle emozioni a una : la rabbia.
Comunque, Greta è tornata in quella casa solo per cercare vecchi giochi da dare alla sua vicina di casa, sono per la figlia, ha 6 anni, e d’altra parte lei dei suoi mini-pony non sa assolutamente più cosa farsene. Apre l’armadio colorato di verde, rosa e blu, ora il suo nuovo armadio è bianco, e la sua parete è grigia, perché per i colori non c’è più posto. I giochi sono nel ripiano più alto, Greta non ci è mai arrivata quindi prende una sedia , li sfila dalla loro scatola dipinta a mano, scende , richiude l’armadio, la stanza e poi il portone di casa, si appoggia alla porta e scivola lentamente per terra , con lei scivolano le lacrime su tutto il suo volto , ma non c’è più posto nemmeno per loro , c’è posto solo per se stessa, le asciuga velocemente , prende l’ascensore e torna a respirare fra la gente , ma Greta non vede nessuno , nel viale alberato sembra esserci posto solo per il suo vuoto.
Una voce improvvisamente la riporta alla realtà, “Gretaa” “Gretaaaa”, è Guglielmo, Greta si fa chiamare più volte, non che non abbia sentito Guglielmo chiamarla, ma non sa se sia il caso di voltarsi o semplicemente fingere di non essere stata chiamata. Ogni volta che vede Guglielmo ogni emozione che ha deciso di voler smettere di sentire la punzecchia nel cuore e non riesce più a rimanere sola nella sua apatia, inoltre ha appena pianto e sicuramente Gu è proprio una di quelle persone che se ne accorgerebbe, effettivamente Gu l’ha vista spesso piangere. Gu è proprio il suo punto debole, lo conosce dalla prima elementare e potrebbe dire di averlo visto crescere, di averlo cresciuto e di essere cresciuta insieme a lui. Era il bambino con il viso più dolce della classe, occhi enormi e marroni, capelli ricci e neri. Ora Gu è grande, è alto molto più di lei, ha le spalle enormi, il viso meno dolce, un’aria perennemente sarcastica e un sorriso così bello da risultare quasi irritante.
Gu c’è un po’ sempre stato, c’era quando Aisha era partita un anno per l’Africa e Greta era solo in terza elementare e sapeva solo piangere continuamente. Quand’era più piccola era molto più in grado di esprimere la sua sensibilità. C’era quando aveva cercato sua mamma naturale senza avere successo e ancora riusciva solo a sgorgare lacrime, ed anche se era un po’ più grandicella era comunque in grado di gestire meglio la sua sensibilità. C’era ora, ora che Greta tratteneva le lacrime in classe, ora che non mangiava, ora che si sentiva sola in mezzo alle attenzioni di tutti. Non che Gu facesse qualcosa di particolare, semplicemente c’era, l’accarezzava quando non voleva essere accarezzata, le teneva la mano in classe e ogni tanto si voltava per chiederle se fosse tutto a posto. Gu era la costante dei suoi pianti, Gu era la costante della sua solitudine, Gu era l’unica presenza che sentisse, l’unica persona che le impedisse di essere quello che voleva essere: sola e senza sentimenti.
Gu era il suo uragano e a lei non servivano uragani, anche perché lui arrivava e travolgeva sempre tutto, e solo nel momento in cui lei smetteva di sentirsi sola con lui, lui come se nulla fosse accaduto, se ne andava. Gu era semplicemente tutto ciò di cui non aveva bisogno.
C’era stato un momento della vita di Greta in cui Gu era stato veramente tutto, in cui sentirlo vicino non era uno stare perennemente in burrasca, ma una piacevole brezza estiva. Un po’ come l’estate prima in cui si erano dati il loro primo bacio. Poi erano iniziate le superiori e si erano persi, lui con gli amici e le nuove compagne di classe lei tra i ragazzi più grandi e tutta l’infantilità che vedeva in lui e da cui voleva tremendamente allontanarsi. Quando l’aveva perso, sentiva in realtà di essersi un po’ ritrovata, tutto quel dolore, la faceva sentire completamente viva, ed ora che stava smettendo di vivere lui a modo suo era rimasto silenziosamente al suo fianco, vivendo tra le sue occhiaie il lunedì mattina e le sue sbronze il sabato sera. Qualcosa però si era rotto, Gu dopo quel bacio c’era stato, ma in modo troppo silenzioso per farsi sentire da Greta che non vedeva altro che sé stessa. Erano cresciuti così tanto e rimasti così piccoli, ed ora lei si era spezzata, rotta come il vetro, ovunque si sporgesse ogni parte di lei diventava tagliente, arrogante ed egoista.
Non voleva più rompersi, e non voleva più tagliare nessuno. Per questo Guglielmo doveva starle lontano, per questo dovevano farlo tutti. Però era tardi, perché lui già l’aveva raggiunta, non si vedevano da mesi, perché c’erano state le vacanze estive, ma ora lui era lì davanti a lei, abbronzato, bellissimo e secondo lei un po’ più alto del solito. La guardava, come si guarda il mare a fine estate, con la consapevolezza di averlo in quel momento, per quei pochi giorni a portata di mano, ma sapendo che dopo quei giorni, una volta arrivato l’inverno, il solo pensiero di stare in costume in spiaggia avrebbe fatto tornare i brividi sulla pelle, anche se per qualche mese ci sarebbe stato solo il gelo, fino all’estate dopo, dove chissà se avrebbe ritrovato i soliti amici al solito bar.
Greta non parlava, lui neanche, iniziarono solo a camminare insieme silenziosamente, sapeva già dove sarebbero arrivati: dove sfioriscono i ciliegi. In fondo era quello il loro posto, il posto dei loro baci, delle loro chiacchierate, dei loro segreti, e dei loro desideri, dove fino all’estate prima si incontravano ogni sera e su quella panchina rossa Greta riusciva a parlare di sentimenti, d’amore, di malinconia, ma anche di solitudine, come se questa non fosse più il suo mostro. Guglielmo l’ascoltava e le confidava le sue paure più grandi, era l’unico momento in cui Greta sentiva di condividere con qualcuno quell’abbandono che viveva ogni giorno. Poi basta, i ciliegi erano sfioriti, e con i ciliegi erano sfioriti anche loro.
Una volta arrivati si sedettero. Guardare le stelle, per vedere se ancora il cielo poteva concedere qualche desiderio: era l’unica richiesta di Guglielmo. Non aveva bisogno che Greta parlasse, che gli spiegasse dove fosse stata o che parlassero di quello che tra loro fosse successo, e d’altra parte esprimere quello che provava non era nelle intenzioni di Greta, così si sdraiarono. Non avevano bisogno d’altro. Guglielmo si voltò verso di lei, le prese prima la mano, poi il viso e tentò di baciarla.
- “Non ti capirò mai” - disse Greta
- “Pensi troppo” - rispose lui
Ed era vero… pensava troppo, a chi l’aveva lasciata, a quello che non aveva, ai suoi gesti mancati, ai suoi sentimenti che tanto sopprimeva e a loro.
Comunque le stelle in cielo brillavano e anche se era Agosto inoltrato il buio di quella collina aveva regalato loro qualche piccola stella cadente, quasi a dire ‘desideratevi, desideratelo, semplicemente desiderate’, ma loro già si desideravano, come si desidera tutto ciò che non si ha.
‘È tutto sbagliato’ sibilò Greta, ma Guglielmo non rispose, guardava le stelle e poi Greta, e poi di nuovo le stelle, in un attimo una scia di luce attraversò il cielo. ‘Cosa desideri?’ chiese lui ‘ Non si dice, o non si avvera, ma tanto il mio è sempre lo stesso’ ed era vero, i desideri di Greta erano sempre gli stessi, scoprire chi fosse, e ritrovare Aisha, quella parte di lei che la faceva sentire tremendamente vuota. “Non ce n’è bisogno, già li so” rispose lui, e non era forse questo? Non era forse avere qualcuno che conoscesse a prescindere i suoi desideri il suo non essere più sola? O meglio, non era avere dei desideri per cui sentirsi viva il modo migliore per vincere il suo mostro?
Greta si voltò, guardò Guglielmo negli occhi e gli diede un lungo bacio, forse non sarebbe cambiato nulla, ma di una cosa era certa, Greta sotto quel cielo scintillante, finalmente, era con qualcuno.
12 aprile
di Lucia Vignali
dieci passi lenti e tre respiri profondi
Malgrado ogni cosa sia destinata a finire, l’essere umano insiste e persiste con ostinata mente e ostinato cuore – non avrei altro modo per spiegare le ragioni per le quali lo fa altrimenti – a ingegnarsi, consapevolmente, sempre in un nuovo inizio. La modalità è sempre quella. Possono variare i tempi di vuoto – o pienezza – che intercorrono tra i due estremi dell’oscillazione del pendolo o l’impatto che ne viene, ma siamo sempre lì: inevitabilmente si sente la necessità di lanciarsi nel vuoto. È un lancio nel vuoto che si fa di testa, prendendo la rincorsa con minimo dieci passi lenti e misurati, tre respiri profondi e via. Nel buio. Nel vuoto.

Foto di Pietro Generali
È una consapevolezza che ti abbandona dopo i primi secondi di caduta libera, perché sai già che la curiosità che ti ha spinto a farlo ti ha solo tradito. Sapevi già cosa ti avrebbe aspettato. Certo, è banale descrivere una nuova esperienza come un lancio nel vuoto, ma è la descrizione più icastica che possa esistere per farlo. Forse si può aggiungere ancora qualcosa che non sia banale, come ad esempio l’impatto, la risalita e la nuova perdita del senno. Quando oramai – abbandonato dalla consapevolezza – la vertigine inizia a farsi spazio e a scuoterti, il volo inizia progressivamente a piacerti. Vorresti continuare nella folle caduta, vorresti essere caduto dal precipizio più alto che la tua coscienza abbia mai potuto creare. Non riesci a pensare a nient’altro che alla dolcezza della tua autodistruzione e, quasi a sfidare i tuoi stessi limiti, ebbro di quella follia che ti anima e che tiene in balia del suo strapazzato moto l’ultimo briciolo di lucidità, non vedi l’ora di poter assaporare l’amara disfatta, certo che non possa mai annullare tutta quella serenità che ti scorre dentro. Lo desideri così tanto, in un momento di puro titanismo, da dimenticare ogni caduta precedente. Alcune volte ne porti ancora i lividi addosso e per non so quale misterioso e arcano motivo, alle volte, sono proprio loro che innescano la scintilla. Ma ritorniamo al folle volo. La vertigine ti inebria fino ad anestetizzarti. L’impatto è come il suono di un albero che crolla in una foresta. Nessuno può sentirlo e nessuno può dire che sia mai avvenuto. Perché nemmeno tu c’eri al tuo impatto. Non ci si è mai o si è sempre impegnati in altro. Che sia per scelta o per naturale meccanismo di sopravvivenza, non saprei dirlo. Ancora qualche caduta e forse lo capirò. Insomma, la vertigine smette di tirati per i capelli e di solleticarti i fianchi e tu ti ritrovi nel posto più freddo dell’universo a domandarti se fossi stato troppo spavaldo a chiedere un destino così amaro. Dopotutto te lo sei cercato, ma per approdare a questo nuovo stato di coscienza bisogna parlare della risalita. Alcune volte non hai tempo di aspettare che le gambe ti si rimettano su belle dritte e salde, addirittura alcune volte non hai il tempo di vedere cosa ti sei fatto. Ti metti in piedi e ti dirigi verso l’appiglio che credi essere il più sicuro. Il più delle volte inciampi e rischi di finire al suolo di nuovo prima di trovare un sostegno. Purtroppo non c’è molta luce e anche se pensavi di esserti abituato a brancolarci, in quel buio non riesci a muoverti sapientemente. Forse alcune volte aiuta l’intervento di qualche persona amica che ti illumina il passaggio e ti offre una spalla su cui appoggiarti. Il punto è che quel buio può confortare fino a un certo punto: fino a quando le gambe continuano a tremare per la paura dell’altezza. La paura – quella pura e sana – è un’emozione onorabile, forse è l’unica che ci tiene ancora in vita e forse anche ciò che lega l’inizio con la fine. Perché la paura dell’altitudine si trasforma in paura del buio e tu non vuoi far altro che salire e fuggire quell’agonia e quell’angoscia. Tanto più è stata devastante la caduta, tanto più velocemente ti rialzerai e combatterai per risalire contro ogni impulso che spinge a preservarti. L’aria rarefatta delle altezze fa sì che quel briciolo di lucidità inizi a lievitare facendo rirendere possesso di tutte le facoltà mentali. Riprendi coscienza del tempo, dei danni, delle mancanze e delle pienezze, dei nuovi colori che i tuoi occhi riescono a vedere, dei suoni che le tue orecchie avevano sempre ignorato fino a quel momento; ti stupisci dei tuoi pensieri, della calma con cui riesci a muovere un passo dopo l’altro, del fatto che le tue mani non avevano mai percepito così intensamente il calore del sole. Nel momento stesso in cui capisci che la disfatta ti ha permesso di vivere più intensamente, agisce quel meccanismo di cui ti parlavo: decidi che non ti basta, che ne vuoi ancora, sempre di più e sempre più forte, e lo desideri così tanto da perdere di nuovo lucidità. E il ciclo ricomincia, ancora e ancora e ancora. Ogni volta che decidi di fare qualcosa nella tua vita, qualunque essa sia e in qualunque ambito, in realtà, tu non scegli: tu perdi il senno. Ed è sempre bello, come la prima volta. La vertigine ripaga sempre, per questo vale sempre la pena arrendersi al suo richiamo. Forse sarebbe anche il caso di non farsi domande. Soprattutto adesso che sto prendendo la rincorsa di dieci passi lenti e misurati e tre respiri profondi.
28 Settembre 2021
di Angela Picarelli
in Salaborsa
Il racconto che, nel 2010, donai alla celebre biblioteca bolognese

In una sera d’autunno di qualche anno fa, spinta dalla necessità di crearmi uno spazio personale, mi venne l’idea di scrivere.
Quella sera, infatti, avrei potuto impiegare il tempo in altro modo: telefonare a un’amica, ascoltare della buona musica, leggere un libro con una storia avvincente. Ma una voce, dentro di me, mi disse che la trama, questa volta, l’avrei scritta io.
Presi carta e penna e buttai giù la traccia di una storia che tenevo custodita nella mia mente da oltre un ventennio. Decisi che, in seguito, avrei avuto tutto il tempo per riflettervi, ma anche che avrei continuato soltanto in un momento in cui tutto mi sarebbe stato più chiaro, senza sapere quando quel momento sarebbe arrivato.
I miei propositi si infransero appena il giorno dopo, durante la pausa pranzo dal lavoro. Per un contrattempo una collega, all‘ultimo momento, aveva disdetto il pranzo insieme a me. Mi trovai così a vagare per il centro di Bologna senza una meta precisa.
Due sole cose mi erano del tutto evidenti: da un lato, sentivo l’esigenza di entrare in un ambiente chiuso, data la bassa temperatura di quella giornata; dall‘altro, era ancora viva dentro me la sensazione di pace che avevo avvertito la sera prima tuffandomi in quel progetto tanto improbabile quanto fantastico.
Mi convinsi che quello era soltanto l’inizio di un lungo percorso.
Questi erano i miei pensieri nel momento in cui mi trovavo in piazza Maggiore, davanti alla statua del Nettuno.
All‘improvviso mi voltai e, senza pensarci troppo, entrai in Salaborsa. Attraversai la “piazza coperta” e mi diressi verso la biblioteca di fronte, con l’unico obiettivo di sedermi a un tavolo e riuscire a tirare fuori con urgenza dalla borsa carta e penna. Cercai e ricercai. Non venne fuori nemmeno il più stropicciato dei foglietti. Non mi persi d’animo: presi in mano il cellulare e aprii la pagina dei promemoria, sperando che lo spazio restante sul telefonino fosse sufficiente ad accogliere le tante parole che tumultuavano nella mia testa.
Le idee mi si schiarivano man mano che componevo le frasi e avevo netta la percezione di quella che sarebbe stata la prima versione del romanzo. Ma un’ora passò velocissima e dovetti rientrare in ufficio. A malincuore rimossi quei pensieri fantastici e mi concentrai su qualcosa di più concreto: il mio lavoro di impiegata in una società finanziaria.
Presi a replicare quella pausa pranzo ogni volta che ne avevo la possibilità, fino a quando non divenne un’abitudine. Munita di un blocco di fogli e di un paio di biro, entravo nell’atrio della Salaborsa con passo deciso, con la medesima sicurezza e familiarità che provavo rincasando dopo una faticosa giornata di lavoro. Tutt’intorno vedevo gente immersa nel mare della lettura, mentre io mi buttavo a capofitto in quello della scrittura.
Tra gli archi dipinti e i soffitti decorati della Salaborsa, giorno dopo giorno, stava nascendo una storia.
Settimana dopo settimana arrivai a consumare un paio di interi blocchi di fogli, annotando in essi parole scritte tutte con il medesimo colore nero, ma con una grafia che rifletteva, via via, il mio quotidiano stato d’animo.
In tarda serata, a casa, quando riuscivo, trascrivevo quel fiume di parole su un file con il computer di mio marito.
Venne così il momento della lettura della primissima stesura del testo, nella stessa sala, allo stesso tavolo, o quasi.
In quei giorni ero tornata a essere una lettrice tra i tanti che, in religioso silenzio, mi stavano attorno.
Arrivò quindi il momento di apporre, sul testo scritto al computer, le correzioni a biro rossa che ben si evidenziavano sui fogli bianchi. Dovetti pensare in fretta a una soluzione che mi permettesse di dedicarmi a quella occupazione durante la pausa pranzo. Sapevo bene però che il computer, a quell’ora, non sarebbe stato in mio possesso. Iniziò così un’avventura nella sala delle postazioni internet. Per tre giorni fissi alla settimana ne prenotavo una che fosse disponibile e procedevo alle correzioni del caso, facendomi salvare, dal gentile operatore con gli occhiali, il file corretto sulla mia chiavetta. Quella, sì, che ce l’avevo sempre con me e occupava, nella mia borsa, uno spazio infinitesimale rispetto al blocco di fogli o alla carta stampata.
Alzando lo sguardo al di sopra dello schermo del computer, i miei occhi trovavano un muro: una parete bianca su cui immaginavo di veder scorrere, come in una moviola, le scene che stavo rileggendo e correggendo.
Arrivò poi il momento della lettura dei fogli stampati dopo la revisione, nella stessa sala dei primi tempi, allo stesso tavolo o quasi, spesso le stesse persone intorno a me, con la loro silenziosa compagnia.
Era intanto giunto Natale e, con esso, un regalo graditissimo: un note book bianco perlato, tutto “da riempire”!
Cominciò così la scoperta di nuovi ambienti in Salaborsa, quelli arredati con i tavoli dotati di spina per l’alimentazione dei computer, come l’intero primo piano da cui potevo ammirare i soffitti meravigliosamente affrescati. Là tutto prendeva un’altra forma, perfino ciò che continuavo a leggere e rileggere oramai da mesi. In alcuni giorni preferivo l’ambiente silenzioso della saletta sulla sinistra, chiusa dalle quadrettate porte a vetri; in altri, apprezzavo il mormorio della gente nell’atmosfera ovattata sulla balconata. In Salaborsa ogni volta la prospettiva era diversa, differenti erano le sensazioni. Là ho vissuto emozioni come quella della telefonata del direttore editoriale, arrivata nel momento in cui ero seduta a un tavolo del bar, nella “piazza coperta“. Se i muri della biblioteca potessero parlare, saprebbero esprimere ben meglio di me ciò che provai nel sentirmi dire: “Lo pubblichiamo!” Che emozione trovarmi seduta a un tavolo rotondo sulla balconata del primo piano in compagnia del consulente editoriale, prima per discutere le clausole del contratto di edizione e poi per rivedere il testo insieme a lui.
In Salaborsa ho scritto una storia. In Salaborsa la mia storia è diventata un libro: Un sogno chiamato Vittoria.
Le sue mura sono state, per me, come un abbraccio materno che ha coccolato e carezzato la mia prima creatura letteraria, plasmandola amorevolmente da quando tentava di trovare un proprio spazio nella moltitudine dei miei pensieri fino alla sua materializzazione definitiva.
Un abbraccio materno che mi ha visto dapprima entusiasta per l’inizio di una nuova avventura letteraria, quando condividevo con un’amica un progetto intenso ed emozionante sulla storia della sua vita che lei mi aveva chiesto di raccontare, e in seguito delusa per l’inaspettata richiesta di sospendere quello stesso progetto. Capii in seguito che mi sarei fatta carico di una grossa responsabilità e che sarebbe stato davvero complicato riuscire a mantenere una giusta distanza. Avrei inoltre incontrato serie difficoltà nel trattare in modo adeguato e corretto vicende altrui delicate e personali.
Nel tempo in cui è durata l’avventura del mio primo romanzo, in alcune sporadiche giornate ho sentito l’esigenza di un cambiamento, come un diversivo.
Ho provato a “tradire” la biblioteca frequentata così assiduamente e mi sono lasciata incuriosire dalla suggestiva cornice dell’Archiginnasio. Ma nemmeno quell’immersione nell'atmosfera dell’antica cultura ha saputo farmi sentire il calore di Salaborsa.
Ora mi è stato gentilmente proposto di donare alla biblioteca un mio scritto inedito. Per il romanzo ho usato la fantasia, ma questa volta non ce n’è bisogno. Il ringraziamento commosso e grato per quanto la biblioteca mi ha dato e mi continua a donare è la verità sulla mia storia in Salaborsa.
Per comprare il libro clicca qui
15 Maggio 2021
di Emanuela Susmel
taccuini da una primavera
Giancarlo stava seduto sulla panchina. A volte stava anche sdraiato, al sole. Tanto ormai quella era la sua panchina. Era diventato un elemento del paesaggio urbano, tanto che spesso molti gli passavano di fianco e nemmeno si accorgevano di lui. Giancarlo contava le margherite che crescevano su quel rettangolo di prato. Le contava tutte le mattine, sempre da quella panchina, sempre in quel rettangolo di prato. Scriveva il numero su un taccuino. Ogni giorno vedeva se erano aumentate o diminuite. “Scusi può portare il cane a giocare da un’altra parte che mi sballa il conteggio?”.

Foto di Pietro Generali
A quel punto o il padrone del cane lo guardava male, oppure si chiedeva che conteggio fosse quello di Giancarlo, se stava facendo ricerche di qualche tipo, magari per calcolare quale fosse la correlazione tra margherite al metro quadro e surriscaldamento globale. Allora lui partiva ogni volta con una teoria diversa, sulle margherite che ultimamente stavano crescendo più dure e coriacee e sarebbero diventate piante grasse nel giro di qualche decennio, sul fatto che le api che le impollinano stavano diminuendo ma lui aveva trovato una nuova specie di maggiolino africano che aveva rubato il lavoro alle api (che poi si sa, le api di oggi non hanno più voglia di fare certi mestieri), oppure che un politico locale nostalgico col poster di Rutelli in camera ogni notte andasse a raccogliere dai prati della città tutte le margherite, pronto a rifondare il partito (più in difficoltà era un nostalgico dei Democratici di Sinistra, perché sradicare una quercia non era cosa semplice). Rimaneva sulla panchina pensandosi come una creatura mitologica, metà scienziato e metà cantastorie. Ma era solo Giancarlo. Contava e basta.
+6 rispetto a ieri, gongolava Giancarlo, e segnava sul taccuino. Il giorno peggiore era stato dopo quella nevicata: -15 segnava il taccuino. Anche lui non se l’era passata bene quella notte a dormire sul freddo del marciapiede. Per fortuna quei volontari là, che ogni tanto gli davano una mano, gli avevano portato delle nuove coperte pochi giorni prima. Chissà perché poi, quei volontari là, quel giorno si erano presentati con delle mascherine in volto. Nemmeno una stretta di mano, che strano. “Oggi non possiamo toccarci Giancarlo”. Non c’era neanche Lucia tra loro, quella volta. Lucia gli piaceva. Gli piacevano i suoi capelli, il suo odore e l’odore delle crostate che ogni tanto gli portava. Lui in cambio era disposto a segnare un -1 sul suo taccuino, staccando una margherita dal prato, solo per lei. Ma quella volta, niente Lucia e niente crostata. Erano tempi strani a dire il vero. Lo capiva perché, oltre all’anagrafe delle margherite, Giancarlo si occupava del conteggio delle persone che ogni giorno passavano davanti alla sua panchina: runner, bambini, vecchietti e padroni di cani. Di solito le persone erano di più delle margherite, perché quel parco era frequentato, ma in quei giorni c’era un’inversione di tendenza. Ultimamente, quando alle 18 aggiornava il bollettino delle persone passate lì davanti, i numeri sul taccuino erano impietosi. 1, 3, 1, 2: i numeri degli ultimi quattro giorni. Giancarlo uscì dal parco per vedere dove fossero finiti tutti. Camminava in mezzo alla strada, padrone di una città senza più traffico, padrone lui, che non aveva mai avuto niente, se non i margini della vita. Si fece una risata, ma forse nessuno lo sentì. Percorse 200 metri, poi girò a sinistra, verso quel ristorante dove ogni tanto gli davano gli avanzi della giornata. Chiuso. Sentì la sirena di un’ambulanza e odore di crostata. L’ambulanza si fermò, non lontano da lui, davanti ad un palazzo, quello con la finestra da cui veniva l’odore di crostata. Uomini vestiti come apicoltori uscirono dal portone. Erano tutti vestiti in quel modo tranne Lucia, di cui Giancarlo incrociò lo sguardo. Lei gli sorrise e salì sull’ambulanza. Aveva una margherita appoggiata sull’orecchio.
17 Aprile 2021
di Samuele Abagnato
incroci e giocolieri

Ho alzato lo sguardo e ho visto un giocoliere. Era all’incrocio col semaforo alla fine dello stradone, che se uno guarda su Maps scopre che si chiama viale Sandro Pertini, daje presidente. Come dimenticare del resto un uomo come lui, il presidente che giocò a briscola con Bearzot dopo i mondiali dell’82, quello che disse: “è meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature”, una frase a cui pochi darebbero torto, ma loro non sanno manco cosa sia la dittatura.
C’era questo giocoliere, a questo incrocio, e chissà se lo sapeva che quello era viale Pertini, se aveva visto anche lui su Maps che si chiama così. Sapeva di sicuro che si incrocia con la via Emilia perché tutti, ma proprio tutti, sanno che la via Emilia è la cucitura che tiene insieme i lembi di pelle di questi posti nostri.
Da lì parte pure via prati di Caprara. Forse questo il giocoliere non lo sapeva, ma si parla da anni di un nuovo comparto edilizio, ai Prati di Caprara, tra le proteste degli ambientalisti contro il consumo di suolo. L’amministrazione dice che l’urbanistica è tutta una cosa di concertazione tra pubblico e privato: i privati vogliono costruire e guadagnare, e il pubblico deve garantire il bene di tutti. Allora io dico che possono chiamarlo, quel giocoliere, come consulente. Alla fine lui se ne intende, il suo è tutto un gioco di equilibri, un continuo stare in piedi senza far cadere niente, che se il mondo cade chissà dove va a finire, e allora devi essere bravo a prenderlo e rilanciarlo su.
Il giocoliere me lo doveva proprio spiegare perché aveva scelto quell’incrocio. Sapeva che poi da lì si arriva all’università? Dopo quel tunnel che per la toponomastica è viale Vittorio Sabena si trova la sede di ingegneria, dimenticata da Dio e dai santi. A me piace essere dimenticato da Dio, ma pure dai santi, e allora avanti tutta signori, perdiamo 40 minuti in quel tunnel, viaggiando sul 35, per 3 fermate, guardando ciascuno nella propria auto, una persona per auto.
Un giorno non ci saranno più le auto private, giuro che un giorno le aboliremo, ma non è questo il giorno. Ancora oggi quando i figli compiono 18 anni i genitori pensano bene di regalargli la macchina, perché sennò povero Cristo come fa a vivere, perde l’uso delle gambe a 18 anni il piccolo, i quadricipiti gli si raggrinziscono, le ossa iniziano ad essere deboli per la carenza di calcio. Regalategli una forma di parmigiano invece di una macchina, lì il calcio c’è. Per non parlare del fatto che se accendi la tv ti accorgi che ancora il 60 % delle pubblicità parla di macchine. È inutile raccontarsi favole sulla mobilità sostenibile, io sto qua bloccato sul bus insieme a voi macchine con semplici motori a combustione interna, una tecnologia della seconda metà dell’Ottocento. È imbarazzante, ancora sbaviamo dietro a una roba di 150 anni fa, mentre oggi l’automazione fa scoperte pazzesche, tanto che tra 20 anni produrrà addirittura i giocolieri robotici, precisi precisi a quelli veri. E tu, mio caro giocoliere, potrai mandarli al tuo posto quando è brutto tempo, quando piove, così non prendi il raffreddore e fai su anche più soldi. Gli automobilisti in coda al semaforo diranno “povero mi fa pena” e ti molleranno due centesimi in più, tanto quelli non gli servono, la macchinetta del caffè al lavoro non li prende. Io, che invece sono una persona integra, i 2 centesimi li accumulo nell’arco dell’anno, perché il caffè lo prendo a casa, nella mia moka, al massimo al bar, perché quello delle macchinette mi fa venire mal di pancia. Io, che sono una persona integra, tutte le monetine da 2 centesimi le accumulo e me ne libero in sole due occasioni: a Pasqua e a Natale. Sono le uniche volte in cui vado a messa, e non sai la soddisfazione di fare tutto quel rumore buttando le monetine nel cestino delle offerte. Lo so, l’integrità ha un prezzo da pagare, possibilmente in monetine di rame.
Giocoliere mio, perché cazzo hai scelto questo incrocio me lo devi proprio spiegare. Ma non era più facile andare in una bella piazza del centro a vedere il sorriso di un turista o di un ragazzo che quella mattina ha saltato la scuola per paura di essere interrogato? No.
Come scatta il semaforo rosso lui si prende la scena con le sue palline. Ruba qualche secondo a chi aspetta il verde: regala un passatempo a chi il tempo lo ammazza. La mano aperta vicino ai finestrini per chiedere una moneta, ma io speravo lanciasse in aria anche quella, rendendo leggero ed etereo anche ciò che è più materiale.
L’asfalto, lo smog, i clacson. Nella piattezza pervasa dalla monotonia della routine lui portava leggerezza, ferendo con un po’ di colore il grigiore compatto del cielo padano. Ho provato a seguire il moto di una pallina sola, ma dopo una parabola l’avevo già persa, come se da sola quella singola pallina non avesse senso di esistere. Dopo qualche parabola avevo perso anche lui, dileguatosi tra le macchine o appoggiato ad un palo a riprendere le forze. Dopo troppe parabole mi ero perso anche io, dileguatomi tra i pensieri o appoggiato al finestrino del bus per riprendere sonno.
13 Febbraio 2021
di Samuele Abagnato
la lista delle faccende
la notte in cui un ragazzo era a casa da solo, ma qualcosa non tornava...
James stava fermo nella vasca da bagno, ascoltando il gocciolio del rubinetto che perdeva e pensava a quanto sarebbe stata bella la vita se avesse potuto farsi un bagno ogni volta che ne aveva voglia.
Non era di certo facile quando dovevi convivere con due sorelle e un solo bagno in comune. Quasi gli sembrava di trovarsi in un collegio femminile, non fosse stato per suo padre.
Ma suo padre non c’era mai, quindi tutto sommato poteva anche essere così.

Mentre fissava il soffitto, ripensava alla discussione di pochi giorni prima di suo padre e sua madre.
«Non sei mai a casa, credi sia facile crescere tre figli da sola»”, gridava lei.
«E tu pensi che sia facile mantenere questa famiglia?», ribatteva il padre ancora più forte.
“Che discorsi del cazzo”, aveva pensato quella volta James infilandosi le cuffie per non dover più ascoltare la lite dei genitori. La loro sembrava veramente la tipica famiglia, con i fratelli che si odiano e i genitori che litigano perché l’uomo va a lavorare e la donna resta a casa a crescere la prole. Bleah. Non poteva esserci nulla di più disgustoso per lui, di una vita così noiosa e prevedibile. Avrebbe dato di tutto per starsene tranquillo in casa senza più nessuno.
E a quanto pareva, era stato accontentato.
Infatti quella sera sarebbe stato a casa da solo. Non era mai capitato, in tutti i suoi 17 anni, che avesse la casa tutta per sé. La sorella maggiore Gina sarebbe andata dal suo ragazzo, mentre la minore e la madre a trovare la zia. Il padre in qualche posto per lavoro, come al solito.
La madre si era raccomandata che tenesse in ordine e per questo gli aveva lasciato una lista di cose da fare. Guarda un po’ se nella sua serata libera da quei demoni di sorelle doveva pure mettersi a fare le faccende di casa. Ma non aveva scelta, o la madre si sarebbe infuriata. Non era mai stata molto affettuosa con i figli, e le sorelle avevano decisamente preso dal suo carattere e quindi James si era sempre considerato un po’ orfano.
Ma a lui stava bene così.
Immerso nei suoi pensieri non si era accorto di essere stato troppo nella vasca e, quando si tirò su, lo notò dalla pelle raggrinzita di mani e piedi. Si asciugò, arrotolò un asciugamano intorno alla vita e si diresse in cucina a prepararsi la cena. Panino tonno e maionese: una schifezza per sua madre, una prelibatezza da gustarsi sul divano per lui.
Si sentiva talmente rilassato che, quando entrò in cucina, notò a malapena il cassetto delle posate aperto e quasi ci finì contro. “Che strano”, pensò. La madre era stata l’ultima ad uscire di casa e lei era una maniaca dell’ordine. Ma era solo un cassetto, capita a tutti di dimenticarselo, nella fretta.
Così si preparò il suo panino e si diresse alla volta del divano, si sedette, accese la tv e così continuò la sua serata idilliaca.
Più tardi si svegliò all’improvviso, come se qualcosa lo avesse allarmato. Si era addormentato sul divano? Non lo ricordava proprio. Forse si era appisolato solo un attimo e le voci della tv lo avevano svegliato… ma la tv era spenta e guardando l’orologio sopra il camino si accorse che erano le due di notte. Possibile che avesse dormito così tanto?

«Cazzo» disse, ricordandosi che sua madre sarebbe tornata la mattina dopo e lui non aveva sbrigato nessuna faccenda. Così si alzò, si pulì dalle briciole che aveva addosso e portò in cucina il piatto. Ma quando fece per metterlo nel lavello, si spaventò e il piatto gli cadde rompendosi fragorosamente in mille pezzi, di cui alcuni lo tagliarono all’altezza della caviglia. James neppure se ne accorse, i suoi occhi erano incollati a guardare l’oggetto nel lavello.
Era un coltello. Il loro coltello da carne, quello grande. Ma che ci faceva lì? Non era possibile.
Prima non ricordava di averlo visto e sembrava fosse stato lavato. Ma che bisogno c’era? Loro avevano la lavastoviglie. In quel momento James non riusciva a muoversi, era come impietrito. Poi a un tratto si riprese, e cercò di ragionare logicamente.
Sicuramente era entrato qualcuno. Prese il coltello, poteva utilizzarlo come arma per difendersi.
Il più silenziosamente possibile iniziò a controllare le porte e le finestre del piano di sotto. Tutto regolare, tutto chiuso rigorosamente a chiave. Mancava il piano di sopra però. Così prese coraggio e iniziò a salire lentamente le scale, che cigolavano piano sotto le sue gambe tremanti. Aveva un coltello, non poteva succedergli niente di brutto, si ripeteva.
Appena di sopra controllò in tutte le stanze, meno quella dei suoi genitori ovvio, la chiudevano sempre a chiave da quando lo avevano sorpreso a 13 anni a rubare soldi dal cassetto dei calzini di suo padre. Mai che la smettessero di ricordarglielo. Comunque era tutto nella norma e James tirò un sospiro di sollievo.
“Che scemo”, pensò. Il coltello sicuramente l’aveva usato la sorella per tagliare la carne che avrebbero mangiato il giorno dopo, e figuriamoci se quella sbadata l’aveva messo a posto. Tanto la colpa sarebbe sicuramente ricaduta su di lui!
Così, prendendosi in giro da solo per essere stato tanto paranoico, tornò di sotto. Il suo obiettivo ora era capire quanto presto avrebbe dovuto svegliarsi l’indomani per fare le faccende prima che sua madre tornasse. Doveva quindi trovare il foglietto con le indicazioni. Poggiò il coltello e lo cercò… Ma dov’era? Eppure era convinto di aver intravisto la madre che glielo scriveva in cucina… Se l’era sognato? Guardò dappertutto, sul bancone, attaccato al frigo, per terra. Niente.
Improvvisamente un brivido gli corse lungo la schiena, perché in quella serata tutto gli appariva così strano? Sentiva che c’era qualcosa di diverso, ma non riusciva a darsi una spiegazione logica. Tutto sembrava in ordine, ma allo stesso tempo c’erano tante piccole cose fuori posto, che non tornavano.
Quindi a quel punto le opzioni erano due, o stava dormendo o aveva bisogno di farlo. Decise che non aveva senso starci a pensare ancora, che se lo avessero saputo le sorelle lo avrebbero preso in giro all’infinito per quelle sciocchezze.
Decise che era definitivamente giunta l’ora di andare a letto, consapevole che la mattina dopo la madre lo avrebbe sgridato ugualmente, anche se palesemente si era dimenticata di lasciargli scritte le faccende.
Bizzarro, però, non era da lei… chissà che le passava per la testa ultimamente.
Così James andò a letto e dormì il sonno più profondo che avesse mai dormito.
Si svegliò il giorno dopo, di soprassalto. Si girò verso la sveglia, e si accorse che erano le due del pomeriggio!
“Ma che diavolo?!” pensò sgranando gli occhi, ancora un po’ assonnati.
Ma come era possibile che l’avessero lasciato dormire così a lungo? Alzandosi fece per andare di sotto, ma si accorse che era nudo; ieri sera alla fine non si era rivestito. Così cambiò direzione e si diresse verso il piccolo armadio di legno che conteneva i suoi letteralmente quattro vestiti. Ma aprendo l’anta non trovò i suoi soliti calzoncini. Ne aveva solo un altro paio, che però gli stavano enormi; in alternativa aveva i pantaloni lunghi che non si sognava neanche di mettere, con quel caldo.
Infilò giusto un paio di mutande e si avviò verso il bagno. Forse li aveva lasciati lì.
Ma appena uscì dalla sua stanza calpestò un liquido denso e appiccicoso.
Abbassò lo sguardo, e ricordò tutto.
Ricordò la madre che stava scrivendo in cucina. Ricordò come lo aveva guardato sapendo che doveva stare a casa, nella sua meravigliosa e perfetta casa, da solo; chissà cosa avrebbe combinato. Era così che lei lo guardava ogni singolo giorno della sua vita.
Poi ricordò il coltello. Di come lo aveva tirato fuori dal cassetto e aveva pugnalato la madre alle spalle. Di come lei si fosse girata a guardarlo, il coltello piantato nella schiena, con uno sguardo che diceva tutto. Che diceva che lei sapeva che prima o poi James avrebbe commesso un errore, che l’avrebbe delusa. Lei lo sapeva, e proprio per questo lui aveva estratto il coltello e aveva continuato a pugnalarla.

Poi ricordò che l’aveva presa e portata di peso in camera sua.
Successivamente era andato da ognuna delle sorelle e le aveva ammazzate entrambe. Senza pietà. Tanto sarebbero state come lei. Non lo meritavano. Lo aveva fatto per loro.
Anche loro erano state portate in camera dei genitori e lasciate sul pavimento accanto alla madre.
“Che bel quadretto” aveva pensato, chiudendo la porta.
Dopodiché aveva ripulito tutto, ci erano volute ore.
Aveva fatto un bagno e messo i vestiti nel cesto dei panni sporchi. Ora sarebbe toccato a lui lavarli, le donne di casa non c’erano più.
“Vero, papà?”, aveva pensato, “ora tocca a noi arrangiarci, non era questo che volevi?”
In quel momento ricordò tutto e si mise a ridere. Rise per un quarto d’ora. Quanto era ironico? Aveva avuto tutto il tempo paura di sé stesso. Ma era stata la serata migliore della sua vita.
Quando la polizia arrivò lo trovò già morto nella vasca da bagno.
Il biglietto con le faccende fu trovato in fondo alla gola della madre.