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il femminile e il maschile della lingua italiana

riflessione

In ambito giuridico e burocratico, onde evitare situazioni di sessismo, vengono utilizzati dei particolari tecnicismi collaterali detti eufemismi. Un eufemismo, di tipo morfosintattico, è ad esempio l’uso del maschile e del femminile quando ci si rivolge alla collettività o l’uso dei nomi professionali declinati anche al femminile.

Sono linguaggi speciali che, per questioni di necessità, devono ricorrere alla doppia marca del genere. 

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Nella storia linguistica italiana e, prima, in quella del volgare, ovvero del latino della decadenza (parlato dalle comunità dei parlanti che abitavano la penisola italiana), si sono verificati una seria di mutamenti linguistici che sono avvenuti in modo del tutto naturali, guidati dalla necessità economica alla basa di ogni lingua: avere un minor numero di elementi per comunicare una vastissima varietà di cose.

L’italiano è una lingua neoromanza, ovvero che proviene dal latino la quale lingua aveva tre marche di genere: femminile, maschile e neutro. Nel corso del tempo, la declinazione dei sostantivi neutri (utilizzata per indicare oggetti inanimati) venne meno per diversi motivi: in primis, fu sempre meno produttiva e vi erano sempre meno sostantivi appartenenti a questo genere declinati con la marca neutra; in secundis, le diverse desinenze del neutro erano molto simili a quelle del maschile e per questo vennero accorpati a questa declinazione. Successivamente, vi fu anche una caduta del sistema delle declinazioni latine, lasciando il compito alla suffissazione di tipo grammaticale il compito di determinare il genere e il numero. La lingua italiana è una delle più economiche e ben organizzate dal punto di vista dei sistemi di suffissazione per la divisione nelle varie categorie grammaticali, ma oggi questo sistema non sembra bastare.

È difficile e molto presuntuoso pretendere di poter modificare la lingua in quanto non è così semplice il modo in cui avvengono questi processi linguistici di mutamento e neanche in così breve tempo. Uno dei principali motivi è il fatto che le norme linguistiche devono essere condivise da tutti i parlanti di una lingua, ma in modo indiretto, ovvero accogliendo il mutamento nella quotidianità della comunicazione. In secondo luogo il mutamento deve essere adatto alla lingua del parlante e al su sistema fonatorio. Questo significa che introdurre dei foni che non possono essere prodotti facilmente da un parlante per via del suo sistema fonatorio che si viene a sviluppare nei primi anni di vita fino massimo agli 11 anni (dal punto di vista psicolinguistico si parla di teoria del periodo critico) perché sarebbe controproducente per la comunicazione. Inoltre, cambiare in modo repentino il sistema grammaticale in uso porterebbe diverse situazioni di confusione, soprattutto per come è impostata quella italiana: le categorie grammaticali del genere e del numero ci permettono di comprendere il messaggio comunicativo senza l’intervento di specifiche che andrebbero ad appesantire la situazione comunicativa in quanto perderemmo la funzione di presupposizione e di deissi fondamentali soprattutto nel parlato. Perché la maggior parte dei motivi per i quali non è possibile pretendere di modificare la lingua è per lo più appartengono alla dimensione diamesica (capacità della lingua di cambiare canale di trasmissione: scritto e orale). Nello scritto, ambito in cui la norma linguistica è più severa perché si è venuta a consolidare nel corso del tempo a partire dalla letteratura delle origini, è davvero impossibile pensare di introdurre un elemento grafico come un asterisco per non marcare la lingua e non distinguere il soggetto o l’oggetto diretto, così come introdurre un elemento fonologico che non appartiene agli alfabeti di nessuna lingua, ma rappresenta graficamente un suono che fa parte dell’IPA (acronimo di Alfabeto Fonologico Internazionale). Insomma, per questioni logiche, la soluzione non può essere nessuna di quelle proposte finora. Forse l’unica soluzione sarebbe di non attribuire alle marche distintive di genere biologico la propria identità di genere e di eventualmente, distinguendo i due contesti, risemantizzare le marche. Altre soluzioni potrebbero essere l’uso di riformulazioni o l’uso di specificazioni in contesti comunicativi in cui la persona non si riconosce nella sua identità di genere dell’’identità in cui preferisce essere identificata. È davvero difficile trattare con la lingua, soprattutto nel caso in cui non se ne conosce la sua evoluzione. La norma linguistica dell’uso del maschile in casi di collettività non vuole in alcun modo andare a screditare o a non coinvolgere la componente femminile, ma è semplice decisione economica della lingua che può benissimo essere superata utilizzando una formula estesa che si volge alla collettività usando sia marca femminile che maschile. Ovviamente, ci troviamo in un momento in cui sono state create delle condizioni per generare un probabile futuro cambiamento linguistico. Di certo, non è una battaglia di cui si possa prevedere l’esito. La lingua non ammette previsioni sulla sua futura veste, se non che prevarrà la caratteristica più conforme al nostro sistema fonosintattico più che alle caratteristiche portanti della nostra lingua, poiché essendo uno strumento generato dall’uomo (al contrario del linguaggio che è un fattore e una capacità naturale) è inevitabilmente intriso di posizioni ideologiche diverse che si sono sviluppate nel corso del tempo e che dovremmo essere in grado di conoscere e di saper disinnescare in contesti storici differenti dove ormai hanno perso ogni connotazione ideologica del tempo perché oramai esenti da quei valori.

19 febbraio 2022 
di Angela Picarelli
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