fedeli d'amore
polittico in sette quadri per dante alighieri
Dalle menti di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, e dalla penna di quest’ultimo, è stata partorita un’opera drammaturgica di straordinario coinvolgimento sensitivo: un polittico in sette quadri che ruota intorno alla morte di Dante Alighieri – piuttosto che intorno alla sua vita – e nasconde nella sua ambientazione nebulosa, quasi di sogno costellato da incubi, una riflessione sul presente.
Un aspetto del Sommo Poeta che mai è stato analizzato – la morte –, in Fedeli d’Amore diventa portavoce, paradossalmente, di un messaggio pervaso di grande speranza e vita:
l’Amore è la forza liberatrice che, rendendoci ribelli, libera da ogni
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costrizione materiale e immateriale. Ne parliamo con Marco Martinelli.
Salve, noi facciamo parte di Radio CAP. Abbiamo assistito allo spettacolo di ieri sera e siamo concordi sul fatto che si sia trattato di un’esperienza audiovisiva imperdibile e davvero bellissima. Dunque, vorrei porti una serie di domande a riguardo. La prima: perché hai deciso di utilizzare un’esperienza sensoriale audiovisiva per trasmettere i concetti della Commedia dantesca al pubblico, soprattutto a un pubblico di ragazzi?
Perché credo che il teatro sia esperienza dei sensi. Non parla solo tramite l’ascolto e la visione, ma deve riuscire a entrare nel nostro profondo anche tramite altri mezzi. I suoni di tromba cui alludevi – che sono di un bravissimo musicista, Simone Marzocchi – a me penetrano nelle ossa. Non sono semplice ascolto, sono esperienza fisica. Il teatro è l’arte di Dioniso, un dio che ci coinvolge attraverso tutti i nostri sensi.
Lo diceva anche Nietzsche.
Nietzsche è uno dei miei maestri, su Dioniso in particolare. È lui che ha aperto una nuova visione del dionisiaco in occidente.
Quale tra i concetti danteschi o aspetti della figura di Dante hai voluto trasmettere di più? In quale sei riuscito meglio, secondo te?
Quelli in cui sono riuscito meglio non tocca a me dirlo, è compito degli spettatori. Quello che, fin dall’adolescenza, mi ha sempre commosso di Dante è che lui prende le cose dannatamente sul serio. Non è mai superficiale, mai il bla bla bla dei salotti e delle tendenze, non è “devo fare questo perché” o “dicono che bisogna fare questo”. Lui parte dalla selva oscura che sente dentro di sé e dal desiderio di luce e di felicità; a partire da quello, tutto, poi, attraverso la disciplina del lavoro, dello scavo e dell’arte, prende forma e disegno.
Ho percepito la figura di Dante molto più umana e ciò fa sì che le invettive acquistino una nuova luce, una nuova consapevolezza. A riguardo, vorrei porti una terza domanda: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, \ nave sanza nocchiere in gran tempesta, \ non donna di province, ma bordello!” questa frase si sente anche all’interno dello spettacolo, è una frase cardine, secondo me, del pensiero politico dantesco. Cosa ci può insegnare il Dante di oggi? Questa frase può essere ancora utilizzabile?
Credo di sì, proprio per questo l’ho utilizzata e da lì ho costruito la mia invettiva verso l’Italia di oggi. Credo che la lezione che ci viene sulla politica da Dante è che prima di tutto noi dobbiamo tenere la schiena dritta, non dobbiamo lasciarci corrompere, perché parlare solo della corruzione degli altri è sempre più facile, è sempre più facile dire contro il potere. Prima di tutto dobbiamo guardare se noi siamo testimoni di giustizia nella nostra vita. A partire da quello, allora, si può provare a pensare a un orizzonte comune e al bene comune, ma deve partire da questa scelta fondamentale: non è guardare al proprio interesse specifico e particolare, al conto in banca, ma guardare a ciò che conta veramente nella vita.
Ultima domanda: perché rappresentare Dante proprio sul letto di morte?
Perché mi ha affascinato l’immagine di quest’uomo che aveva appena finito di scrivere il Paradiso in un momento focale della sua vita. Non era nella selva oscura, non era all’inizio del suo esilio: era a Ravenna, ospite stimato e ammirato. L’ospitalità che gli dà Ravenna, non gliela dà nessuna città italiana. Guido Novello, signore della città, lo accoglie e gli rende tanto onore; anzi, forse, gli fa fondare la prima scuola di volgare in Italia. Quest’uomo che sta finendo pacificato la sua vita, dopo esser tornato da un’ambasceria a Venezia, si trova immerso nella febbre – nel delirio della malaria – e la morte inizia ad avvicinarsi. E allora mi sono chiesto: lui, che aveva appena finito di scrivere l’eterno, cosa prova con la sua carne di uomo e di creatura? Noi siamo piccole cose, una febbre ci stronca. È come se la morte fosse la selva oscura che gli si ripresenta. Questo contrasto mi ha molto affascinato e ho pensato che a partire da lì avrei potuto scrivere il testo.
Grazie mille, sia per lo spettacolo che per la disponibilità a rispondere a queste domande.
Grazie a te e grazie agli amici di Radio CAP, grazie per il lavoro che fate, perché è un lavoro importante, di approfondimento delle cose.