la corea è in fiamme
Un confronto tra Parasite e Burning
fra conflitto di classe e ménage à trois

L’anno scorso, cinematograficamente parlando, è stato l’anno della Corea del Sud, che da cinema ad appannaggio di pochi appassionati ha iniziato a far trapelare sé, e di conseguenza anche le altre cinematografie asiatiche, un po’ di più nel mercato occidentale.
È stato largamente merito di Parasite, il film di Bong Joon-Ho che ha ottenuto un incredibile doppio successo – rarissimo di questi tempi – sia di critica che di pubblico, andando a vincere premi diametralmente opposti come la Palma d’Oro a Cannes e le più importanti categorie dei Premi Oscar, soliti a premiare drammoni tendenti alla mera compiacenza dell’ego statunitense.
Questi risultati sono inspiegabili perché, seppur Parasite sia oggettivamente un film magistrale, questo non giustifica il suo successo all’interno di circuiti internazionali dove i film asiatici e, soprattutto, con alla base un messaggio politico chiaro, vengono regolarmente (volontariamente?) snobbati.
È più facile che l’Academy abbia improvvisamente sterzato le proprie direttive e l’Oscar sia diventato un premio per film impegnati o che semplicemente non abbiano bene compreso i messaggi di cui era portatore Parasite?
Ad onor del vero, negli ultimi anni un cambiamento nelle preferenze dell’Academy c’è effettivamente stato, con la vittoria di film dal forte contenuto politico (sempre e comunque messo fra le righe, nascosto da una ben più hollywoodiana storia d’amore) come Moonlight e La Forma dell’Acqua, ma questo di certo non basta a spiegare la sorpresa della vittoria di Parasite. Ma c’è un’altra coincidenza interessante: nello stesso anno in cui Parasite sbancava i botteghini di tutto il mondo e occupava le discussioni degli amanti del cinema, un altro film sudcoreano usciva in Italia, più in sordina, ma comunque creando attorno a sé una certa aria d’importanza, a cui si aggiungevano diversi premi meno roboanti di quelli vinti dal connazionale: Burning, di Lee Chang-Dong. Questi due film hanno di peculiare che, oltre a porsi ad un livello di qualità cinematografica pressoché irraggiunta dagli altri film usciti nello stesso periodo, trattano suppergiù lo stesso tema: il conflitto di classe. Lo fanno entrambi tramite il sottotesto, lasciando che sia lo spettatore a trarre le sue conclusioni dopo aver visto gli eventi narrati. Non è un caso che siano film sudcoreani, dato che il paese ha uno dei più grandi divari tra ricchi e poveri tra le nazioni sviluppate e sta lottando intensamente per far fronte a un mercato del lavoro in declino. Un paese la cui velocissima crescita economica è stata accompagnata da enormi problemi scandagliati da cineasti che hanno fatto della violenza il loro marchio di fabbrica, creando spesso reazioni politiche. Bong Jon-Ho era uno dei migliaia di artisti a cui furono negati fondi statali sotto il governo del presidente conservatore Park Geun-hye a causa delle loro presunte critiche sulla sua amministrazione. A seguito delle proteste di milioni di persone, Park è stato espulso dall'incarico nel marzo 2017 e ora sta scontando una pena detentiva decennale per corruzione. Sorte simile ha subito Lee Chang Dong, nato a Daegu, una roccaforte della destra coreana. La sua famiglia, di nobili origini, cadde in disgrazia e lui è cresciuto con genitori di simpatie socialiste. Ha sostenuto il presidente liberal-democratico Roh Moo-Hyun diventando anche Ministro della cultura nel 2003 e 2004. Gli otto anni di pausa fra Poetry (il suo ultimo film, datato 2010) e Burning non sono in realtà dovuti ad una carenza di idee, ma al fatto che il governo allora in carica gli ha impedito di lavorare ad un film politicamente schierato a causa della sua partecipazione al governo precedente.
Oltre alla comunanza politica, ci sono molte differenze fra i due, tra cui lo stile, quasi diametralmente opposto, due strade parallele che non si incontrano mai ma che giungono alla stessa meta.
Ora, è assolutamente probabile che la stragrande maggioranza di chi legge questo articolo abbia visto Parasite ma non abbia mai sentito parlare di Burning, quindi sarà necessaria una piccola disparità di trattazione fra i due: per il primo lascerò sottintese varie parti di trama mentre per il secondo mi dilungherò un po’ di più sperando di riuscire a far giungere la mia riflessione in merito. Cercherò di evitare gli spoiler, ma è consigliabile approcciarsi alla lettura solo dopo aver visto i due film.
Parassiti, parassiti, parassiti
Parasite è un film che lascia relativamente poco all’immaginazione: vediamo il progressivo insediarsi di una famiglia proletaria, i Kim, incredibilmente ingegnosa nella vita e nella casa di un’altra famiglia di ricchi, i Park, annoiati e ingenui alto-borghesi, andandosi a sostituire uno per uno tutte le figure che gravitano attorno a questi, dall’autista alla domestica, dalla tutrice di un problematico quanto viziato bambino all’insegnante di inglese per la figlia adolescente. Il tutto regge finché non viene fuori che qualcun altro, da molto più tempo della famiglia Kim, era un “parasite” nascosto della stessa famiglia, e da qui in poi il film prende una piega grottesca a tinte quasi horror.
La prima parte, quella appunto in cui viene raccontata l’ascesa dei “proletari”, è narrata con una certa ironia quasi da commedia all’italiana dei tempi d’oro, ritmo serrato e numerose gag ci spingono ad empatizzare per i protagonisti a causa della loro caparbietà e perché siamo portati, dopo anni di cinema hollywoodiano, a tifare per personaggi che compiono un’ascesa sociale ed economica, specie se dalla povertà totale ad una posizione di tutto sommato prestigio. Ma Bong Jon-Ho non edulcora quest’ascesa, e non la condanna nemmeno, lascia allo spettatore la possibilità di formarsi la propria opinione: la famiglia è simpatica, furba e intelligente, ma i sotterfugi che usano, oltre che illegali, sono meschini, e le persone a cui fa perdere il posto di lavoro sono privi di colpa, sono professionisti leali che all’improvviso si ritrovano senza lavoro e infamati da accuse senza fondamento. Queste contraddizioni sono i semi della guerra fra poveri che esplode definitivamente nella seconda parte, quando i Kim si trovano davanti qualcun altro, ben più disperato di come erano loro e che è lì da molto più tempo. Non c’è spazio per tutti: la lotta fra i parasites non può che spostarsi dalla furbizia alla violenza, la sua naturale degenerazione.
Parasite è un film che mette progressivamente la lotta di classe al centro, senza prendere una posizione chiara a riguardo, almeno all’apparenza. Il corto circuito che si crea nella testa dello spettatore è palese: per chi tifare?
Questo succede perché siamo abituati all’idea che bisogna tifare per qualcuno, qualcosa, un’idea chiara da seguire. Sentiamo il bisogno di una morale che alla fine ci dica cos’è bene e cosa è male, e questo Bong lo sa. Lo spettatore medio occidentale cerca sempre un insegnamento, una parabola da ricavare a tutti i costi per giustificare lo sforzo della visione. Ma generalmente gli asiatici, quasi completamente scevri dalla dicotomia bene e male, dalla paura del peccato, della redenzione e della condanna - idiosincrasie tipiche dei paesi di radici cristiane - non sentono questo bisogno spasmodico di risposte chiare. È forse questo il motivo per cui Parasite ha polarizzato tanto i giudizi: chi non voleva vederci la lotta di classe e la critica al capitalismo semplicemente non l’ha vista (o ha fatto finta di non vederla), chi la cercava l’ha trovata e ne è rimasto estremamente soddisfatto. A rimanere deluso sarà stato solo chi dai film pretende una tesi spiattellata dall’inizio alla fine, chiara e leggibile da chiunque, o chi semplicemente non ama il cinema e si è ritrovato davanti un film più complesso di quello che voleva vedere.
Questa è stata la ricetta del successo di Bong Joon-Ho, ma non credo che questa scelta vada letta come ipocrisia o paura di esporsi. È vero che il film non indirizza lo spettatore a prendere una posizione pre-confezionata per lui, ma è anche vero che non si può rimanere indifferenti agli eventi narrati. Parasite è un film spiacevole, che lascia una sensazione di sconfitta perenne, emblematizzata dal meraviglioso (e tanto criticato dal pubblico generalista) finale, che potrebbe essere letto come: se nasci povero nella società capitalista contemporanea, per quanto tu possa lottare, nella stragrande dei casi morirai più povero di come sei nato, mentre i ricchi resteranno sempre nei loro castelli ai piani alti.
Il film di Bong ha una struttura a cerchio piuttosto chiara: inizia con i Kim nei bassifondi di Seul impegnati in lavori umilissimi che non riescono a svolgere bene, umiliati da chi è appena un gradino sopra di loro, e finisce con loro nella stessa posizione, ma ora immersi nella cacca fino al collo. Il corto circuito nello spettatore si rafforza e assume la forma della presa in giro: “perché mi hai fatto tifare per dei personaggi destinati a perdere fin dall’inizio?”. Sono chiari anche i simbolismi che permeano tutta la pellicola: il film inizia e finisce con una disinfestazione; la casa dei Kim è letteralmente un buco in fondo alla città; la casa dei Park va raggiunta con una scalata; l’odore di povertà dei Kim percepibile solo dai Park, lo stesso dell’altro “parassita”.
Chi non ha apprezzato Parasite forse non ha una conoscenza base della grammatica cinematografica che permetta di apprezzarne l’incredibile aspetto tecnico, ma questa, se uno non studia cinema, non è una vera colpa, anche se bisognerebbe imparare che il cinema, in quanto arte si merita di più che giudizi soggettivi e “di pancia”. Si è forse troppo abituati a guardare film che fanno per noi il lavoro di riflessione e che dirigono il nostro sguardo (e, di conseguenza, il nostro cuore) verso conclusioni certe, morali accettabili e condivisibili. Parasite non è un film adatto a chi delega le proprie opinioni, questo è sicuro. Con Parasite Bong ha compiuto un passo avanti rispetto al pur bellissimo precedente Snowpiercer proprio grazie a questo stratagemma: nascondendosi dietro la macchina da presa e lasciando le proprie opinioni da parte (per quanto possibile, dato che Bong è dichiaratamente socialista) decide di non filmare un assalto frontale al sistema capitalista (come aveva fatto invece in Snowpiercer) rendendo il film meno scontato, meno – apparentemente – schierato. Evita di scaricare direttamente sullo spettatore disattento carichi emotivi e politici, garantendosi al contempo un ritorno economico e di immagine inedito per un cineasta coreano e l’apprezzamento dello spettatore attento che ha colto le intenzioni del cineasta. Parasite è una storia, è un film, non un manifesto. È un altro corto circuito innestato nella testa dello spettatore: un film che critica il sistema capitalista è credibile se nella sua forma è costruito per ottenere successo, premi, ritorno economico? Ovviamente sì, è oltremodo efficace per mettere in luce delle contradizioni che si vengono a insinuare nella forma stessa del film, e ovviamente per raggiungere un pubblico che, con una forma più tradizionalmente “autoriale”, sarebbe stato impossibile raggiungere. È questa la più grande idea di Parasite: giocare al gioco del capitalismo e del mercato globale, apparendo come un prodotto perfetto ma nascondendo sotto la propria patina una satira sociale che non consegna eroi né cattivi ma solo persone vittime della società in cui vivono.
Granai, Incendi, Gatti
Passiamo a Burning, di Lee Chang-Dong, uscito in realtà nel 2018 ma distribuito da noi solo l’anno successivo. Anche in questo caso stiamo parlando di un regista che, come abbiamo detto prima, non ha mai nascosto le proprie opinioni politiche. Lee Chang Dong è il tipo di regista che fa pochi film e solo quando crede davvero nel progetto. Il risultato è una filmografia praticamente perfetta: Peppermint Candy, Oasis, Secret Sunshine, sono annoverati, a ragione, fra i migliori film asiatici di questo secolo, così come era stato acclamato il suo ultimo film Poetry, del 2010. Riguardo al tempo trascorso da inattivo a causa dell’ostracismo politico subìto Lee Chang-Dong ha dichiarato:
“Durante questi otto anni mi sono fatto un sacco di domande: che tipo di film voglio fare e che tipo di film farò per il mio pubblico? Alla fine non sarebbe stato necessario stare fermo così tanto tempo: avrei potuto facilmente fare film che le persone vogliono vedere, giusto con un tocco del mio stile personale così che potessero essere acclamati dalla critica, però io stavo cercando i miei film, che sono davvero tutto quello di cui posso parlare. A quel tempo stavo pensando alla rabbia delle persone: tutti quelli che conoscevo allora erano arrabbiati, senza distinzione di religione o nazionalità. La storia di Burning mi ha messo in connessione con le mie domande e la mia storia.”
Burning è tratto da un racconto di Haruki Murakami, Granai Incendiati, contenuto nella raccolta L’elefante scomparso e altri racconti (Einaudi, 2009). Non è affatto scontato che un cineasta sudcoreano decida di adattare un racconto di un autore giapponese e già questo dovrebbe fare riflettere. La Corea è stata sotto il dominio giapponese dal 1905 fino al Trattato di San Francisco del 1952, con cui però non ottenne libertà, ma finì al centro della nascente guerra fredda che poi portò a tensioni culminate nella Guerra di Corea e alla divisione in Corea del Nord e Corea del Sud. Difficile non vedere anche questa scelta come un atto politico. Ma di cosa parla Burning?
Jong-su è un giovane neolaureato che vive di lavoretti nella città di Paju, mentre coltiva il sogno di diventare scrittore. Un giorno incontra Hae-mi, coetanea che abitava nel suo stesso quartiere quando entrambi erano bambini, e i due escono insieme qualche volta. Hae-mi è in procinto di partire per un viaggio in Africa e chiede a Jong-su di prendersi cura del suo gatto mentre lei sarà via; prima della partenza, i due fanno l'amore. Jong-su si reca regolarmente nell'appartamento di lei, anche se il gatto non gli si mostra mai. In aeroporto, al ritorno di Hae-mi, Jong-su fa la conoscenza di Ben, nuovo affascinante amico di Hae-Mi, indubbiamente benestante, ma che non rivela molto di sé. Jong-su, che avverte la competizione per la ragazza, accenna a farsi da parte, ma tuttavia i tre escono saltuariamente insieme. Quando sente di essersi innamorato, e lo rivela a Ben in un momento di confidenza, Ben contraccambierà rivelandogli un suo particolare hobby: bruciare granai, e afferma che presto ne brucerà uno vicino a casa sua. Da quel giorno Jong-Su non riuscirà più a rintracciare Hae-Mi e inizierà una disperata ricerca.
Al centro di Burning c’è quindi il più classico dei triangoli amorosi: il protagonista povero, introverso e con una forte passione artistica che non riesce ad esprimere a dovere, si innamora di una ragazza allegra, intelligente ma sfuggevole, finché fra i due non si sovrappone un terzo misterioso figuro, più maturo, appetibile economicamente, a complicare le cose.
Dove sarebbe la politica in questo film? Tutt’intorno. A partire dalle ambientazioni: l’appartamento di Hae-Mi è, letteralmente, un cubicolo minuscolo dove c’è a malapena lo spazio per un letto (ed è ironico, in questo senso, che in un posto così piccolo Jong-Su non riesca a trovare il gatto), la fattoria del padre di Jong-Su è al confine con la Corea del Nord (spettro di cui non si parla mai davvero ma che è sempre presente), da cui arrivano in continuazione voci di altoparlante che recitano litanie propagandistiche, per finire con la casa di Ben, il più stereotipato degli appartamenti borghesi (inutilmente grande, maniacalmente lucido). Lo sono ancora i lavori che i protagonisti svolgono: non è un caso che il film si apra con un piano sequenza con Jong-Su di spalle che trascina sulle spalle un pesante sacco che deve consegnare ad un negozio, e proprio davanti a questo incontra Hae-Mi, intenta a lavorare come ragazza-immagine “buttadentro”. È un incontro quasi dettato dai rispettivi bisogni materiali, dalla propria classe sociale. Invece Ben è semplicemente ricco, non si sa davvero da dove arrivi la sua fortuna e lui non ci tiene a dare spiegazioni, ma è sottinteso che sia tramite affari poco puliti. Il triangolo amoroso si viene inevitabilmente a configurare anche come conflitto di classe fra Jong-Su e Ben, che incarnano entrambi le caratteristiche e le idiosincrasie della classe d’appartenenza: tanto disilluso e timido il primo, quanto bello (con un nome e tratti somatici molto “occidentalizzati”) e sicuro di sé il secondo. La forza e il fascino che Ben esercita sui due spaesati proletari non sono solo economici, ma anche e soprattutto psicologici: è un Gatsby moderno, pieno di segreti e soldi, a metà fra il salvatore e lo sfruttatore, una figura che non può che soggiogare Hae-Mi strappandola lentamente dalle braccia di Jong-Su fino a farla scomparire.
Tema principe di Burning è anche l’atto gratuito, il fare una cosa solo per farla. Il bruciare granai non serve a nulla, è solo una perversione, così come a Ben non serve a nulla far scomparire (forse?) Hae-Mi. La piromania è misteriosa almeno quanto la follia omicida. L’atto gratuito è solo l’ennesima delle perversioni finali generate dal capitalismo: un uomo ricco e annoiato può permettersi di giocare con le vite dei poveri fino al punto da farli scomparire, tanto è consapevole che non verrà mai punito. La classe egemone può permettersi di far scomparire la classe subalterna. Ma cosa potrà fare l’uomo povero quando messo in una condizione in cui, privato anche della naturale gioia dell’amore, non avrà più davvero nulla da perdere? A Ben non interessa che per qualcuno i granai possano rappresentare la vita o la morte, così come non gli interessa che lo stesso possa rappresentare Hae-Mi per Jong-Su. È inutile dire che anche Burning nella sua seconda parte diventa molto più violento, seppure la violenza è ritratta da Chang-Dong con un lirismo stupefacente, forse ancora più agghiacciante del pathos di Parasite. La violenza colpisce al cuore lo spettatore, portato ormai ad identificarsi con Jong-Su, come lui confuso e spiazzato da una serie di eventi che non riesce a decifrare e a cui non può che reagire con rabbia. Jong-Su controlla i granai vicino casa sua ogni giorno ma nessuno è stato bruciato, al contempo inizia a sognare di sé stesso bambino davanti a un granaio in fiamme. I ricordi si mischiano ai sogni: che fosse lui a incendiare i granai e non Ben? Che fosse proprio Hae-Mi il granaio che Ben aveva intenzione di bruciare vicino a lui? Oppure è lui stesso il granaio che sta bruciando di rabbia?
Conclusioni
Parasite è un perfetto esempio di cinematografia ai massimi livelli tecnici, meticolosamente studiato, il classico film hitchcockiano in cui nulla, non il più piccolo dettaglio, è lasciato al caso. Burning è un film più emozionale, dettato dall’ispirazione momentanea, in cui tutto sembra svolgersi con ritmo naturale, per nulla pianificato, quasi seguendo il corso naturale delle cose, che non accentua in alcun modo gli eventi drammatici, se non mostrandoli mentre succedono. Parasite è come una perfetta e studiata prosa, un libro scritto in maniera sublime da cui semplicemente non ci si può staccare, Burning invece ha la forza rivelatrice di una grande poesia: necessita di più letture, ma rimane a lungo nei pensieri di chi la legge. A livello politico Parasite non vuole condurre lo spettatore verso un’emozione precisa, non vuole plagiarlo con una tesi, ma mostra degli eventi che non possono che risultare in una satira chiara, inequivocabile. Parasite porta lo spettatore a formarsi un’opinione libera. Burning è più schierato: lo spettatore è sempre posto dalla parte del povero, portato ad identificarsi con lui, ma la satira politica è più rarefatta, difficile da cogliere. Gli eventi non sono così espliciti come in Parasite. In Parasite lo spettatore deve sforzarsi a prendere una decisione riguardo cosa ha appena visto, in Burning prima deve capire cos’ha visto, ricostruire un filo logico degli eventi, anche se il regista gli ha già fatto capire chi ha subito e chi ha sopraffatto nella storia.
Quale di questi approcci risulta migliore? Nessuno dei due, ovviamente. Non si tratta di determinare quale dei due risulti migliore, ci ha già pensato il mercato a decidere quale dei due è più efficace: Parasite è forte di una costruzione che è innegabilmente affascinante per gli appassionati e catturante per il pubblico generalista, è un immenso sforzo produttivo e artigianale che non poteva passare inosservato. Burning è sfidante, inadatto a chi vuole un film per passare una serata con gli amici, e probabilmente rimarrà nella sua nicchia, sebbene tratti gli stessi argomenti di Parasite, solo in modo diverso. Latente e sfuggevole come i suoi personaggi, Burning necessita di più visioni: se si rimane indifferenti alla prima si sarà comunque compulsivamente spinti ad una seconda e poi ad infinite altre. Burning, come solo i migliori film sanno fare, lascia il segno, pianta dei semi nella mente che poi germoglieranno in idee, dubbi, intuizioni. Ci sono momenti di pura bellezza cinematografica (Hae-Mi che balla seminuda sulle note di Miles Davis, nella controluce del tramonto, tra i confini delle due Coree si candida alla miglior sequenza del decennio) che un regista schematico e paranoico come Bong Joon-Ho non si sarebbe mai permesso.
Con questi due film la Corea, che fino ad ora aveva fatto breccia nel mercato internazionale solo con Old Boy di Park Chan Wook, si è finalmente ritagliata il suo spazio in un mondo cinematografico che sta pian piano (finalmente) abbattendo quelle vetuste barriere continentali che per decenni ci hanno reso difficile, se non impossibile, la visione di capolavori provenienti dall’altro capo del mondo. Gli effetti si sono visti immediatamente: è stato proposto al cinema il primo capolavoro di Bong, datato 2003, Memorie di un Assassino, fino ad ora criminalmente mai distribuito in Europa, così come Mademoiselle del già citato Park Chan Wook, del 2016. Parasite è un perfetto apripista e sono convinto che anche in questo stia la sua forza: il sacrificarsi ad essere considerato come film “commerciale” e “ipocrita” può servire a far scoprire al grande pubblico un nuovo cinema magari partendo proprio da Burning, che oltre al conflitto di classe porta con sé una marea di temi a dir poco impressionante e che senza il successo di Parasite forse non sarebbe mai uscito dai confini nazionali. Questi film non sono solo uno specchio di una realtà, quella coreana, che sembra lontanissima, ma lo sono anche della nostra. È un caso che il conflitto di classe sia ben presente anche in C’era una volta ad Hollywood, il film dello stesso anno di Quentin Tarantino, il più mainstream dei registi occidentali? È un caso che sia così anche in Martin Eden di Pietro Marcello? Forse la Corea del Sud non è così lontana come sembra. Forse stiamo bruciando tutti all’unisono e non ce ne accorgiamo neanche.
Spero che sia solo l’inizio di un’apertura non solo al cinema coreano ma anche a quello africano, sudamericano, taiwanese, indiano, filippino e così via, nuove cinematografie un po’ più coraggiose delle nostre. Come ha detto Bong nel suo discorso di accettazione dei Golden Globes: “C’è solo da superare la minuscola barriera dei sottotitoli per essere introdotti a migliaia di incredibili film. […] Penso che usiamo solo una lingua: il cinema.” Presto potrebbe non esserci nemmeno più la barriera dei sottotitoli, e ne abbiamo solo da guadagnare.